di Luca Sforzini
“La mia arte è una fontana senz’acqua. Quando il mondo è fango, è menzogna anch’essa. Gli uomini d’oggi, ricordatevi, hanno più bisogno d’esempio che di pane”.
“Nullo Viandante”, alter ego di Giandante X, distilla queste parole nel racconto “L’ultimo cireneo” di Leonida Repaci. E’ solo il 1923; Giandante X, al secolo Dante Pescò (Milano 1899-1984) non ha che 24 anni ma ha già dimostrato di volere e saper coniugare implacabilmente pensiero e azione. E’ certo presago di un arduo futuro, ma quanto i suoi destini personali siano intrecciati con la Storia d’Italia e d’Europa sarebbe stato difficile prevedere, in quel 1923. Quel ventennio agli esordi non avrebbe tardato a presentare il conto. Una vita non banale quella di Giandante, paradigma di una generazione che ha attraversato una fase cruciale della storia italiana ed europea, e dei rapporti tra arte, artisti, storia e politica – raramente indagati. Urge un passo indietro. Dante Pescò nasce a Milano nel 1899 da una ricca famiglia dell’imprenditoria lombarda; suo padre ha un florido opificio tessile, a cui Dante sarebbe naturalmente destinato. Fin dalla più tenera età, però, Dante manifesta un ingegno brillante, una propensione all’introspezione ed allo studio che gli valgono ampi riconoscimenti scolastici, ma anche un interesse per l’estetica e per l’arte, ed una crescente inclinazione all’astrazione ed alla contemplazione difficilmente conciliabili con la praticità paterna. Fin da ragazzo dimostra una spiccata propensione per il disegno, che coltiva alla scuola di arti decorative del Castello sforzesco di Milano e ad alcuni problemi sociali, propensione che allarma i professori. Studia ed è affascinato da Arnaldo da Brescia e Savonarola. Cresce così in lui l’ insofferenza all’atmosfera familiare ed alla quiete borghese di casa. Nel 1915 l’Italia entra in guerra : la maggioranza della popolazione resta indifferente, sostanzialmente neutrale, ma in alcune grandi città del nord dilaga una febbre interventista d’ ascendenza risorgimentale : lo straniero va cacciato fuori dai confini naturali, oltre il Piave. Così, la Storia bussa alla porta di Giandante già nel 1917 : la disfatta di Caporetto fa prevedere che i ragazzi del ’99 sian chiamati a colmare i vuoti dell’esercito italiano in rotta, e Dante anticipa i tempi. Abbandona la famiglia; tenta di partire per il fronte col Battaglione ciclisti degli Alpini, che già annovera tra le sue fila i volontari futuristi Sironi, Balla, Boccioni e Carrà. Il numero dei morti nelle prime battaglie sull’Isonzo supera il numero di tutti i caduti del Risorgimento; i soldati marciscono in trincea per interminabili settimane tra topi, pidocchi, sangue e liquidi organici; l’orrore di dimensioni mai prima conosciute, pare poter finire “solo per esaurimento di uomini e mezzi” – come nota con preoccupazione il generale Luigi Cadorna . Per sua fortuna, gli studi ancora da concludere e l’età assai acerba rispediscono presto Dante lontano dalle linee nemiche, ma lui ha ormai affermato, con slancio volontaristico, la propria libertà ed ha preso con forza tra le mani il suo destino. Non lo lascerà mai più. Da quel momento è soldato in pace come in guerra, nella quotidiana battaglia per render la sua vita conforme al Mito dell’Arte come strumento di riscatto suo personale e dell’Umanità intera. Tutto va sgretolato dalle fondamenta : non può bastare correggere uno schema sociale ereditario, bisogna distruggerlo per edificare sulle sue rovine città nuove e un Uomo nuovo. Con la Prima Guerra Mondiale il mondo ha scoperto a sue spese il duplice volto della tecnica : le macchine, le nuove scoperte, possono esser indifferentemente strumenti di bene o di male, al servizio del progresso o della distruzione. Gli aderenti al Novecento, sensibili alla tradizione, semplicemente ignorano il problema e le sue conseguenze sociali ; i futuristi invece idolatrano la macchina, ne fanno un Mito, attribuiscono al progresso tecnico facoltà taumaturgiche risolutive della crisi in atto. Dimostrandosi indipendente da qualunque raggruppamento, Giandante riconosce al progresso tecnico il dono di poter affrancare l’uomo dalla fatica, ma rifiuta alla macchina il ruolo di sprone alla creazione artistica. La macchina – secondo Giandante – non potrà arrestare la crisi né tantomeno risolverla fino a quando lo spirito – l’Uomo, sempre al centro della sua missione – non l’avrà piegata ai fini superiori cui è destinata. La Prima Guerra Mondiale ha anche quasi completamente troncato l’ attività degli architetti e rallentato quella dei pittori. Lo slancio dato alla cultura europea – fin dal 1914 – dal Werkbund tedesco per l’architettura e dai movimenti pittorici, subisce un’ inevitabile battuta d’ arresto; le premesse del rinnovamento artistico, però, sono solide e fondate. Si tratta, nel dopoguerra, di metter al passo l’ azione culturale con i progressi tecnici, sociali ed economici accelerati dalla rivoluzione industriale. In Italia, il disorientamento e le incertezze sono notevoli. Dante si rituffa nello studio con furore quasi mistico, insensibile a qualunque distrazione e sottraendo tempo anche al sonno. Si laurea in Architettura a Bologna all’età di 19 anni, e viene abilitato subito dopo alla docenza : è il più giovane Professore d’Architettura d’Italia. Il Collamarini, famoso per i suoi interventi in San Petronio, lo definisce pubblicamente “novello Sant’ Elia dell’ architettura moderna” . Sant’Elia è il principale e primo architetto futurista, in un periodo in cui il futurismo è l´avanguardia artistica del mondo; con la sua morte, nel 1916, il movimento futurista perde tutto ciò che ha da dire in architettura, e con l’avvento del fascismo si avvierà al completo svuotamento, venendo a coincidere con la dittatura – che come tutte le dittature impone ed alimenta il ritorno al neoclassicismo. Dante si qualifica, da ora, anche nei suoi biglietti da visita, a volte come “professore” ma sempre e spesso solo come “architetto” : “costruttore” d’avvenire quindi, edificatore di un nuovo modo di abitare il mondo. Due anni dopo si laurea anche in Filosofia; l’Accademia di Brera gli offre il posto di assistente alla cattedra d’Architettura , il Comune di Milano gli chiede di far parte della Commissione Edilizia ed Artistica della città . Dante rifiuta tutte le proposte – come farà per tutta la vita : ha un Ideale più alto a cui sacrificare ogni ora del suo tempo. Sceglie ora lo pseudonimo che manterrà tutta la vita. Spinge il retaggio borghese paterno oltre l’ultimo passo sull’orlo dell’abisso, e ne cancella anche, con il cognome, la memoria. Come scrive lui stesso in alcune note autobiografiche ” (…) si dichiarò Giandante; realmente fu un viandante, perché non ebbe mai sosta e, fu anche un crociato, perché sulle sue spalle s’applicò l’enorme Incognita X (eterno divenire)” . Efficacemente nota Edoardo Varini : “da ora è Giandante, che viene da “viandante”, con quella G davanti che vale “God”, Dio, il Grande Architetto dell’Universo, e quella X in coda che vale l´Incognito che inscalfibile ci attornia” . Si mantiene scrivendo di arte ed architettura su giornali e riviste e su questi argomenti tiene spesso pubblici dibattiti. Peraltro le sue esigenze pratiche son ridotte al minimo. Giandante si impone una disciplina di vita ascetica, pari alla missione che s’è dato : mangia un solo pasto al giorno, freddo – riso in bianco, pane e acqua; si alza ogni mattina alle cinque, si allena per un’ora, fa una doccia gelida e poi studia e lavora implacabilmente, ai limiti del misticismo, fino a notte. Indossa in ogni occasione un abito scuro, calzoni da soldato, scarponi chiodati, e un pastrano nero che potrebbe anche apparire elegante, se il suo viso scavato, magrissimo, freddo, sbarbato, demoniaco, non gli togliesse qualunque idea di vanità. Gli occhi neri ed incavati sotto la fronte spaziosa ed uno sguardo tagliente, gli conferiscono un aspetto pensosamente fiero. Il suo passo ha dell’ assalto. Esordisce alla prestigiosa Galleria Vinciana, a Milano, nel 1920. E’ un esordio – con ben venticinquemila disegni a china – simbolista, con accenti art nouveau, ma già portatore dei semi di asciuttezza del Costruttivismo russo. In quegli anni il Costruttivismo è ancora ignoto al di qua delle Alpi – gli scambi dell’Italia con l’estero sono rari – eppure Giandante ne pare già consapevole : forse ne ha notizia attraverso la Scuola di arti decorative del Castello Sforzesco, prezioso nodo di scambio di libri con l’Europa fin dai primi anni ’20 . E’ quello l’ anno in cui Ozenfant e Le Corbusier fondano la rivista “L’ esprit nouveau” per verificare la semplificazione che si voleva instaurare nelle immagini artistiche, e il pensiero di Giandante tende a coincidere con le idee di Gropius : sostiene l’idea di un’architettura lineare e chiara in contrasto con la falsa, vuota monumentalità di facciata e con gli stilismi tanto in voga all’epoca. I suoi carboncini architettonici del 1920 sembrano modelli del Palazzo della Civiltà Italiana realizzato più di vent’anni dopo da Marcello Piacentini. Si accorge della crescente importanza dell’ urbanistica, ed auspica l’ adozione di tecniche e materiali nuovi per fondare anche attraverso un’ architettura che vada “verso il popolo” con requisiti di funzionalità ed estetica – una società edificata su principi nuovi, ove l’uomo possa vivere libero dal bisogno e dallo sfruttamento. Come sostiene Gropius, bisogna porre le esigenze umane fondamentali al di sopra di quelle industriali ed economiche delle officine. La Mostra alla Vinciana è un successo. Margherita Sarfatti, influente madrina, esprime fiducia negli esiti futuri di Giandante “lavoratore accanito ”; molti altri lo notano e lodano : Carlo Carrà, e il grande scultore Adolfo Wildt in primis, che ne patrocina ufficialmente la Mostra e lo definisce “vergine di ogni accademismo ”. Sarebbe un’occasione propizia per far fruttare il fortunato esordio stringendo relazioni ed amicizie eccellenti. Giandante, però, rifugge ogni aggregazione ed opportunismo. Avendo tenuto i contatti con la cultura europea attraverso le letture e le amicizie, intuisce che bisogna evitare gli estremismi; si pone, tra i tradizionalisti ed i futuristi, in una posizione di ragionevole adesione ai problemi ed alle istanze dei tempi nuovi. Già emerge in lui una forte sensibilità politico-sociale, in pittura come in scultura : i suoi uomini, i suoi volti, non sono luttuosi come le maschere tragiche bensì orgogliosi, quasi miti eroici : in essi non c’è un seme di rovina – tipico del simbolismo – bensì di riscatto, in piena tensione etico-politica. In una foto degli anni ‘20, conservata nel suo archivio, una scritta campeggia nello studio di Giandante : “L’uomo è Dio”. Creatore e creature non sono scissi ma uniti, e come nella Tavola Smeraldina “ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una”. L’uomo non è soggetto a nulla se non a se stesso : questo umanesimo mistico, questo ascetismo anacoreta, è negazione d’ogni autorità trascendente. Purtroppo l’individuo, l’ ”Uomo” di Giandante è destinato dalla Storia a finire a breve dritto nelle fauci di un potere totalitario: un regime che non può per sua natura concepire l’uomo se non come cellula dello Stato, ingranaggio di un meccanismo. Siamo agli esordi del fascismo : superfluo in questa sede ricordare la nascita dei Fasci di combattimento in Piazza San Sepolcro proprio a Milano, le prime spedizioni di squadracce in giro per le campagne, gli assalti alle Case del Popolo ed alle sedi delle associazioni operaie, le violenze dilaganti. Non a caso già in questo periodo è difficile per Giandante far accettare le sue idee, le sue figurazioni essenzialmente tese verso uno stadio superiore dell’Uomo. Giandante, quasi inconsapevolmente e suo malgrado, dato il respiro internazionale dei suoi studi e sensibilità, aveva bruciato le tappe del progresso culturale. Si trovava così naturalmente, ed in grande anticipo sui tempi, sulle posizioni dell’ avanguardia europea e quindi, in patria, nel quasi assoluto isolamento. Non lo capisce praticamente nessuno; è quasi deriso, circondato dall’indifferenza, frainteso dal pubblico e dalla critica, ad eccezione degli ingegni più aperti e sensibili che lo seguono in un’attesa fiduciosa : Bruno Munari, gli allora giovanissimi Birolli, Manzù, De Rocchi, Del Bon – che riconosono in lui un combattente generoso e disinteressato per una causa comune a tutti coloro che non voglion posporre l’interesse dell’arte ad una situazione contingente o di parte. A questi si aggiunge la famosa collezionista svizzera Madame H. de Mandrot La Sarraz, una sorta di Peggy Guggenheim del primo dopoguerra, che acquista due suoi collages . A Milano è assai raro che Giandante riesca a vendere qualche opera; così, continua a mantenersi con l’ attività giornalistica, scrivendo soprattutto di architettura e sulle arti figurative in generale, ed applicandosi alla grafica per la stampa. E’ proprio al terreno concreto dell’ arte a cui Giandante affida il compito di conoscersi e comunicare con gli altri. Ma in quei tempi, nel bene e nel male straordinari, neppure l’Arte/Mito, mistica divinità a cui Giandante ha immolato la vita, pare poter bastare. Giandante cerca fratelli di lotta, e li trova : nel 1921 è tra le fila degli Arditi del Popolo – il corpo volontario apartitico che fa fronte con armi analoghe alle violenze delle squadre fasciste. Con tutta evidenza Giandante sa come usare un’ arma : se così non fosse, ben difficilmente avrebbe potuto farne parte. Gli Arditi non hanno l’appoggio né del Partito Socialista, moderato per vocazione, né del Partito Comunista, diffidente verso l’irriducibile autonomia d’una formazione trasversale dove confluiscono militanti d’ogni estrazione politica e sociale : repubblicani, socialisti, anarchici individualisti; eppure gli Arditi arrivano a contare 20.000 militanti in tutt’Italia ed ottengono successi “militari” a Sarzana ed a Parma, minando l’aura d’inarrestabilità degli avversari. Solo il patto di pacificazione sottoscritto da fascisti e socialisti – col governo Bonomi nel ruolo di garante – ferma gli Arditi : la neutralità dello Stato, con una monarchia tormentata dall’incubo degli eventi del 1918 in Russia, è ovviamente solo apparente. Così mentre le azioni delle camice nere sono tollerate, gli Arditi si ritrovano contro tutto l’apparato repressivo dello Stato e si dissolvono. Ma Giandante non si arrende : scrive “il mondo è in tempesta – ebbene l’Arte deve essere una bufera ”. Nel 1922 risulta esser uno dei due coordinatori del nucleo milanese dei Gruppi Segreti di Azione di Guido Picelli, fondati per “difendere i diritti dei lavoratori del braccio e del pensiero”, e per “preparare materialmente e moralmente i lavoratori al fine di costituire in Italia l’organo forte, tecnicamente capace e pronto a passare all’offensiva al momento opportuno”. I Gruppi raccolgono tra gli operai fondi necessari all’acquisto di “oltre 500 moschetti pronti all’uso”, come si legge in una nota della Polizia di Stato . Nello stesso anno fonda il gruppo antifascista delle Cappe Nere (un’eco delle associazioni carbonare) che si riunisce nei sotterranei del Duomo per discutere di filosofia, storia, arte e antifascismo e per contribuire così, con la parola e con l’azione, ad instaurare una nuova etica sociale. Scoperto e arrestato nel 1923 con l’esecutivo del gruppo, viene prosciolto in virtù di una sorprendente autodifesa (e della fortunosa circostanza di non aver con sé armi all’atto dell’arresto). “Già varie volte arrestato, quella sera gli fu fatale: e, sotto la tortura rasentò la pazzia” scrive lui stesso di sè. In carcere si taglia i polsi, “per protestare contro i ritardi del processo “, come dirà poco dopo a Pietro Longo, anche lui a San Vittore in quei giorni. Longo non dimenticherà mai questo gesto, né le parole “di ordinaria amministrazione” con cui Giandante gliene parlò l’indomani . Nelle sue poesie emerge il fiero ricordo di questa esperienza : “Nessuna inquisizione / fece paura al prigione” . ”. Da allora viene schedato come “nichilista incendiario”, posto sotto osservazione e imprigionato preventivamente a ripetizione ad ogni arrivo a Milano di qualche gerarca o personaggio di rilievo. Di fatto gli si fa il vuoto attorno, un vuoto grave, pesante sull’ anima perchè è solo a combattere per l’ indipendenza spirituale della creazione artistica. Pochi lo capiscono, molti lo evitano anche per paura o per semplice, amarissima diffidenza. Viene espulso dall’ albo degli architetti e l’ indigenza si fa miseria. Dopo i fatti del 1923 e per parecchi anni il suo isolamento diventa ermetico. Quasi nessuno può accedere al suo studio, assai raramente anche gli amici piu sinceri tra cui Giolli, Repaci o Titta Rosa. Partecipa intanto alla prima Biennale delle Arti decorative di Monza, dove espone una serie di disegni di case idealizzate, squadrate, lisce, cubiche, prismatiche e piramidali – come monoliti marmorei. Vince così la medaglia d’oro della Camera di Commercio e Industria di Firenze, e riceve da Albert Boken, Presidente dell’Associazione Architetti d’Olanda, una proposta di collaborazione alla prestigiosa rivista d’arte De Stijl, autentico cuore e laboratorio del neoplasticismo europeo . La città ideale di Giandante resta sempre solo sulla carta (in un tempo in cui i committenti sono pubblici poteri o altoborghesi prossimi al regime) : niente planimetrie nè ipotesi di inserimento urbanistico. Proprio questo, però, libera Giandante da ogni problema pratico, lasciandolo concentrarsi sul rinnovamento dell’immaginario; ricerca l’unione tra materia, etica e morale. Così le sue visioni architettoniche partecipano a pieno titolo all’edificazione della modernità. Le sue sono sperimentazioni audaci, sintesi architettoniche nuovamente di respiro europeo – mentre il resto d’Italia si attarda sul gusto neoclassico o al massimo Liberty. Il fascismo, giova ricordarlo, non ha ispirato un “suo” originale stile artistico ma si è limitato a fagocitare quanto nel panorama esistente risultava funzionale ai suoi fini propagandistici; lo teorizza serenamente, quasi candidamente lo stesso Bottai. Così, è improprio parlare di arte fascista : più corretto parlare di artisti fascisti o compiacenti. Esemplare a questo proposito è la vicenda del futurismo, ancora oggi nell’immaginario collettivo spesso considerato il “fiore all’occhiello” del fascismo. Il manifesto futurista risale al 1909, ben 13 anni prima della nomina di Mussolini a capo del Governo; Umberto Boccioni e Antonio Sant’Elia morirono nella Prima guerra mondiale senza aver mai sentito nominare il fascismo. L’ “alleanza” tra futurismo e fascismo maturò quindi per ragioni pratiche e mercantili, su comune iniziativa, essenzialmente propagandistica e reciprocamente opportunistica, di Filippo Tommaso Marinetti e Benito Mussolini – non per affinità estetica o poetica : un proficuo e ben calcolato accordo tra le parti. Così Giacomo Balla definisce Mussolini “l’artefice intuitivo”. In gioventù Filippo Tommaso Marinetti aveva scritto : “Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie “; ora diviene membro dell’Accademia d’Italia. Anche il movimento “Novecento” è prefascista, riconducibile all’estetica europea del cosiddetto “ritorno all’ordine” ; ma anche in questo caso, molto banalmente, il gruppo – composto da più di 130 artisti – sotto l’egida del regime può organizzare mostre nazionali e internazionali, congressi, dibattiti. Lo stile “Novecento” – fatto di immagini statuarie, solide, affini ai canoni classici – va a genio al fascismo, fatalmente neoclassicista come tutte le dittature. L’avanguardia è ricerca, esito imprevedibile; la tradizione classica difficilmente può riservare sorprese; rassicura; calma; sopisce. Carlo Belli fregia del titolo di “fascista” l’arte che manifesta “rispetto della forma”. L’ attività di Giandante è essenzialmente quella di pittore e scultore ma nel 1924 comincia a collaborare con “l’Unità” (introdottovi verosimilmente da Repaci, che ne è il critico teatrale), anche per mantenersi. Ormai venticinquenne, da quando ha abbandonato la famiglia ha cominciato a vivere nella piena indipendenza, di fatto nell’indigenza : alla morte del padre aveva infatti ereditato una cospicua somma, ma l’aveva subito, sdegnosamente, spesa in quarantott’ore – in libri (venti quintali) e (dicono) armi . Su “l’Unità” Giandante coltiva le sue ricerche costruttiviste, declinandole nell’attualità storico-politica : il suo primo disegno raffigura un uomo che brandisce la bandiera dei lavoratori davanti al sol dell’avvenire. Linee chiare e volumi squadrati, raffigurazioni semplici, colossali e simboliche, d’immediata forza espressiva : non più solitari pensatori chiusi in sè bensì il pulsare delle masse : operai in marcia verso la città futura. Grazie anche ai contatti de “l’Unità” Giandante ha occasione di entrare in rapporti diretti con l’avanguardia sovietica in almeno due casi : Traversi riferisce di un’esposizione in Russia nel 1925, Biscaro segnala che il padiglione sovietico alla fiera campionaria nel 1926 è curato da Giandante . Secondo Agnoldomenico Pica in questi anni nasce il razionalismo italiano , con le proposte di Giandante X e del Gruppo Sette . Un obiettivo del costruttivismo è stabilire un circuito di comunicazione tra i membri della comunità, e la stampa risulta a questo scopo più efficace delle gallerie d’arte : l’emancipazione del popolo attraverso il suo ingresso nella vita politica, civile e culturale delle nazioni passa ben più facilmente attraverso l’immediatezza di un quotidiano. A Milano hanno sede le redazioni del “Popolo d’Italia”, finanziato dagli industriali del Nord, e de “l’ Unità”, sostenuta dal Partito Comunista. Sironi pubblica sul Popolo d’Italia, Giandante sull’ Unità. A prima vista non si potrebbero immaginare due personalità tanto distanti, eppure i due vengono spesso accostati dalla critica d’arte. Certo i loro opposti destini (nel bene e nel male) risultano paradigmatici di un’epoca che agli artisti ha dato e dagli artisti ha preso molto. Così, attorno al 1925 Sironi pubblica vignette umoristiche che bersagliano le opposizioni – raro caso di “satira filogovernativa” – in stile naturalistico caricaturale ricco di chiaroscuro e sfumature; ogni risultato formale è sacrificato alla propaganda. Giandante invece col suo essenziale, lineare, denso bianco e nero, coi suoi uomini squadrati, prosegue in chiave costruttivista. Quando poi queste forme simmetriche, squadrate, monumentali, titaniche, saranno assimilate e così corrotte dal regime, Giandante non esiterà a lasciarsene alle spalle la tetragona potenza. Risale a questi anni oscuri il suo ritorno ai “primitivi” – non agli artisti del medioevo italiano due/trecentesco a cui si ispira il movimento “Novecento”, bensì alla preistoria pura, ai primordi dell’umanità, all’infanzia della civiltà. Giandante attinge all’energia primigenia del genere umano, all’immaginazione fanciullesca, alla grotta d’Altamira dove trova asilo ciò che la società del ‘900 sta rimuovendo o rinnegando. La sua arte accusa la volontà di dominio e supremazia, e risale alle origini del tempo – quando ancora l’uomo non si cura di stirpi o razze. Primitivismo a parte, Giandante non sarà anticipatore solo del razionalismo, bensì anche dell’astrattismo – sebbene episodicamente. Si incammina così su strade di inaudita forza innovativa : le sue prime sperimentazioni astratte risalgono agli anni ’20. Nel 1929, in occasione dell’11ª fiera campionaria di Padova, Giandante illustra con bozzetti astratti – composizioni cinetiche di gusto avveniristico – l’invenzione del cinema sonoro . Si interessa alla tecnica, causa prossima delle trasformazioni in corso in Europa e nel mondo. Si apre anche ad una contaminazione espressionista : il colore comincia a maculare i titani di Giandante come la ruggine intacca il ferro. Alla fine degli anni ’20 comincia dunque per Giandante la scoperta del colore come valore plastico. Lo seguiranno, su quella strada, i movimenti anti-novecentisti e antifascisti degli anni ’30 : Corrente, i Sei di Torino, la Scuola Romana, che tutti – tra mille difficoltà ed ostracismi – innalzano i loro multiformi, coloratissimi vessilli di rivolta. Chi si adegua ha invece vita facile. Istruttivo è proprio il già citato parallelismo alternato tra Sironi e Giandante, che durerà per tutta la vita di entrambi. Può giovare a questo proposito anticipare i tempi lanciando uno sguardo al futuro : mentre nel 1938, in un sottoscala di Barcellona, Giandante disegnerà i manifesti delle Brigate Internazionali nella guerra di Spagna, Sironi starà preparando una gigantesca annunciazione per l’Ospedale Maggiore di Milano – intanto i suoi committenti promulgano le leggi razziali. Mentre nei primi anni ’40 Sironi affrescherà Ministeri, palazzi signorili, dimore di regime, Giandante, in campo di concentramento, si starà arrabattando con mezzi di fortuna, disegnando su piccoli fogli da donare ai compagni di prigionia. Nonostante uno scontro verbale tra i due, il venerato Sironi rispetterà sempre il meno fortunato e più giovane collega. Solo nel dopoguerra i ruoli s’invertiranno – non completamente come solo il radicale antiopportunismo di Giandante può spiegare. L’ultimo dipinto di Sironi sarà un’apocalisse sanguigna popolata di uomini non più monumentali ma piccoli, contenuti, tormentati moralmente in uno scenario infernale; contemporaneamente Giandante starà dipingendo volti, montagne, fiori rigogliosi e coloratissimi – i soggetti più gioiosi nei suoi 70 anni di pittura. Ma senza precorrere i tempi e tornando agli anni ’20, il superuomo di Nietsche viene ormai impastato di razzismo, virando così da emblema filosofico a simbolo di supremazia. Nel novembre del 1926 viene istituito il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato: i giudici non sono magistrati di carriera bensì ufficiali della milizia – ex squadristi. Oramai tra la gente comune l’antifascismo è vinto : chi si oppone è morto, o in esilio, o in prigione. Molti artisti “confluiscono”, spesso per convenienza, necessità o paura, nel regime. In Italia tutto è tranquillo e normalizzato : il fascismo ha il sostegno della corona, dell’ alto clero, della piccola e grande borghesia; per i benpensanti in tutto il mondo Mussolini è il dittatore illuminato della civiltà latina; il New York Times, Le Monde, Il Times, Le Figaro, hanno per lui parole lusinghiere; si parla di miracolo; pochi irriducibili isolati continuano ad opporsi. E’ questo per Giandante, come lo definisce Traversi, il periodo della protesta. Mai teatrale, anzi nell’ impossibilità di manifestare apertamente il suo pensiero. Scrive lui stesso (Giandante parla quasi sempre di sé in terza persona) : “La lunga solitudine gli insegnò a guardare nei cuori, come a Gesù il deserto” . Nonostante l ‘ indigenza, conserva una pura assenza di senso utilitaristico. Spesso regala le sue opere per amore verso il prossimo, rappresentante dell’ umanità nei confronti della quale sente di avere una missione da compiere. Giandante ha le idee chiare; scrive : “Per fare l’Arte necessita amare e perciò essere sociali. Nell’ Arte c’è tutto : noi e gli altri ”. Così nel 1929 rompe il prolungato isolamento e scende a parlare di conciliazione, speranza e progresso. E’ il ventesimo anniversario della fondazione del Futurismo, che viene celebrato alla Galleria Pesaro, a Milano. Giandante si intrufola senza invito e, come scrive Biscaro, ” (…) sembra un soldato che vada all’assalto di una trincea, che vorrebbe costituire l’arresto di altre idee, di altre concezioni artistiche, di altri modi di interpretare la vita sociale “. Entra in contradditorio pubblico con Marinetti in una sala gremita di personalità della cultura e dell’arte ; incurante delle possibili conseguenze, attacca il Futurismo denunciandone l’inconsistenza sul piano etico e quindi estetico; taccia il futurismo di passatismo, e probabilmente ha ragione; ne segue un memorabile battibecco . Come scrive Roberto Farina, “quel giorno a Milano si fronteggiano la modernità e la reazione; alla retroguardia erta sullo sfacelo dei popoli si contrappone l’avanguardia di un uomo riemerso da quello sfacelo “. Alla nascita il futurismo aveva incoraggiato chi in Italia cercava una via d’uscita dalla tradizione asfissiante; Marinetti aveva rinfrescato l’aria nazionale spregiando le viltà opportunistiche e spronando all’audacia, al coraggio, alla ribellione ; anche Giandante ne aveva subito il fascino a 16 anni. Venti anni dopo Marinetti era ormai passato in retroguardia, aveva chiuso gli occhi di fronte ai mutilati dalle nuove armi di cui continuava a cantare l’energica violenza, spesso comodamente assiso tra i velluti rossi dell’Accademia d’Italia. Giandante si dichiara extra-espressionista costruttivista , inserendosi così con forza e decisamente nel dibattito tra Futuristi e Novecentisti. Giandante vuole unire la passione dell’espressionismo e la razionalità del costruttivismo, affinché visioni e azioni siano una cosa sola; vuol far convergere soggettività e oggettività, individualismo e collettivismo, vuole ricondurre gli opposti all’unità come le avanguardie europee. I tempi non sono mai stati così cupi in Europa : è quindi indispensabile unire le forze in una sintesi che porti l’individuo e le masse a una nuova armonia di pensiero e di azione. Nemico dichiarato di ogni opportunismo ed arrivismo, Giandante denuncia l’ inanità dell’ arte direttamente o indirettamente influenzata dalla politica. Giolli nel 1930 scrive che ”in realtà ogni artista vitale è al centro anche se talora si dichiara di una teoria estremista” . E’ l’ esatta posizione spirituale di Giandante. Scrive Edoardo Varini : “Uno così non lo tieni, uno che crede che l´unica vera arte sia la lotta per la libertà, a chi ha venduto l´anima al potere fa paura “. Il regime quelli come lui li perseguita, perchè li teme. Ciò che ne segue è conseguenza pressoché inevitabile. Dopo anni di angherie, bastonature, minute persecuzioni quotidiane, Giandante nasconde come può opere, carteggi, libri e documenti e nel 1933 lascia clandestinamente l’Italia. Le guardie di confine hanno l’ordine di sparare senza preavviso su chiunque cerchi di varcare senza autorizzazione, e molti lo crederanno morto nel tentativo. Non è così. Giandante decide la fuga attraverso la Svizzera; entra clandestinamente in Francia e raggiunge Parigi, dove vive per tre anni di lavoretti, principalmente da decoratore. Temendo, nella sua condizione d’ illegalità, di compromettere gli amici – che pur trova in terra di Francia – rifugge ogni relazione sociale, accentuando così la sua naturale propensione alla solitudine. Siamo ormai al 1936 e la Spagna sale – tragicamente – sul proscenio d’Europa. Il Fronte Popolare vince le elezioni e comincia a sottrarre spazio e potere alla Chiesa, ai latifondisti ed all’esercito; ha in programma la riforma agraria, la riorganizzazione del lavoro, dell’Università, dell’esercito e dell’apparato burocratico; si parla di voto alle donne e di legge sul divorzio; s’immagina di rafforzare le scuole pubbliche e le autonomie regionali. In sintesi : c’è odore di rivoluzione. Pronta scatta la reazione a difesa del tessuto tradizionale della società spagnola – guidata da un direttorio di generali con a capo Francisco Franco : è lo scoppio della guerra civile. Appresa la notizia, Giandante ne avverte l’irresistibile richiamo. Lascia Parigi e giunge in Spagna, dove prende subito parte alla battaglia di Monte Pelato – inquadrato nella colonna Rosselli; quindi raggiunge Barcellona. Si ritrova alla caserma Carlos Marx in compagnia di altri giovani italiani, polacchi, francesi, austriaci e jugoslavi che arrivano per esser arruolati : sono circa 50.000, e parlano 52 lingue diverse . Germania ed Italia appoggiano Franco, armandone le truppe fino ai denti e riversando in Spagna incalcolabili tonnellate di piombo (per decenni i bambini spagnoli giocheranno con i bossoli disseminati sulle terre dell’Ebro). In una guerra civile tra spagnoli, Giandante – equipaggiato, come i suoi compagni, con armi difettose e residuati bellici – si ritroverà quindi, dolorosamente, ad esser un italiano contro altri italiani.
Dopo un periodo di trincea nella 134^ Brigata Mista, viene assegnato da Luigi Longo alla direzione artistica della Propaganda delle Brigate Internazionali : in fondo, l’arte è l’arma migliore di Giandante. In occasione di offensive, programmate o previste dall’una o dall’altra parte, si preparano manifesti con poche parole di propaganda e disegni semplici ed espressivi che incitano a resistere, reagire, abbattere il nemico. Servono come incoraggiamento, e per sollevare il morale degli uomini. Li si attacca sui muri delle case, lungo le strade della zona di battaglia, li si riproduce in piccoli volantini lanciati a milioni sulle linee nemiche . Qui Giandante produce idee grafiche, disegni, bozzetti per giornali, manifesti, volantini e cartoline che lasceranno il segno nella grafica repubblicana e ne diverranno un simbolo identificativo; disegnando i manifesti di propaganda delle Brigate Internazionali, Giandante torna a lavorare in un bianco e nero netto ottimale per la stampa : sostituisce i picconi con le baionette, ed usa un tratto più flessuoso di quello usato per “l’ Unità”, ma altrettanto incisivo. La guerra intanto fa il suo corso. Nel 1937 sull’altopiano di Guadalajara, a pochi chilometri da Madrid, le Brigate Internazionali fermano l’avanzata dell’esercito franchista – composto principalmente da truppe inviate da Mussolini; la Brigata Garibaldi, costituita interamente da italiani, ha un ruolo decisivo nella vittoria repubblicana, ricordata come la prima sconfitta militare del fascismo. Giandante è lì, e l’EIAR diffonde in Italia la falsa notizia della sua morte nella corso della battaglia. “(…) Il compianto per la morte di Giandante – scrive Rèpaci anni dopo – fu generale nell’ambiente artistico milanese. Si riconobbe il genio di Giandante (il talento non bastava più); si scoprì la bellezza di una vita spesa per l’ideale; si pensò da molti al miglior modo di dare a Giandante morto la gloria che Giandante vivo non aveva potuto raggiungere per il fariseismo dominante, si progettò una grande retrospettiva di Giandante che offrisse un quadro completo delle eccezionali capacità dell’artista; (…)” Chi aveva contribuito ad isolarlo, chi non aveva mosso un dito, se ne pentì; chi lo aveva perseguitato con misure di polizia se ne vergognò. “La gloria postuma di Giandante durò alcuni anni, fino alla caduta del fascismo, quando egli rientrò in Italia. (…) Ci fu chi lo ignorò per la rabbia di averlo visto sopravvivere a se stesso; ci fu chi gli rifece il deserto intorno per il dispetto di averlo dovuto riconoscere da morto, ci fu chi giurò a se stesso che neppure la morte vera avrebbe più spostato l’ago della bilancia ”. A dispetto dell’EIAR Giandante è ancora lì, a combattere. Le file antifasciste sono intanto lacerate da guerre intestine, divise sulle strategie; comunisti ed anarchici si scambiano accuse d’intelligenza col nemico. In estrema sintesi : i comunisti vogliono vincere la guerra a prescindere da come; gli anarchici sono interessati anche al modo in cui la si vince. Divampano sanguinose lotte interne, ed i repubblicani sbandano. Nel 1939 Barcellona viene bombardata per tre ore di fila ; la città diventa un ammasso di cemento sbriciolato, vetri frantumati, buche, macerie, rifiuti, sangue e cadaveri. E’ il 26 gennaio quando l’esercito franchista vince l’ultima resistenza in città; Barcellona cade. Quel giorno comincia il grande esodo degli antifascisti, principalmente verso la Francia; Giandante è lì, e si mette in marcia con quella mesta fiumana. La ritirata trascina circa 420.000 profughi, in un mescolarsi di reduci di guerra, famiglie intere ed animali che defluiscono faticosamente fino al confine dei Pirenei – dove si arenano. Il governo francese, spiazzato ed inizialmente incerto sul da farsi, blinda la frontiera; i disperati si ammassano, aumentano giorno dopo giorno, patiscono fame, fatica, freddo, dissenteria e tifo. Urla disperate di madri, che piangono la morte dei figli, rompono il silenzio degli sconfitti. L’intera Europa è nello stesso vortice. Francia e Inghilterra han mantenuto l’arrendevolezza dimostrata in Spagna. Hitler ne ha tratto incoraggiamento ad invader la Polonia. Nel settembre 1939 è ufficiale : è guerra. La Francia non può più chiudere gli occhi alle frontiere, ma certo non srotola tappeti rossi sul cammino dei profughi. Vengono allestiti tre campi di concentramento politico-militari : a Gurs, Saint-Cyprien e Vernet. Nei suoi quattro anni di prigionia, dal 1939 al 1942, Giandante li conoscerà tutti e tre. A Vernet, alle pendici dei Pirenei, Giandante rimane dal 5 giugno 1940 al 9 giugno 1942; all’inizio, quando arrivano i primi prigionieri, non c’è che fango; gli internati scavano buche, improvvisano ripari con mezzi di fortuna, costruiscono baracche rudimentali giorno per giorno con le loro mani e il materiale di recupero “gentilmente” fornito dal governo francese. Vi confluiscono delinquenti comuni e prigionieri politici di ogni provenienza, sommariamente divisi in settori. Secondo alcuni resoconti, la disponibilità di cibo e le condizioni igieniche sono perfino inferiori al livello dei campi di concentramento nazisti. Non c’è alcuna assistenza sanitaria, a parte la somministrazione di qualunque vaccino conosciuto, per proteggere la popolazione francese dei dintorni da possibili, imprecisati contagi . Nonostante tutto, i prigionieri riescono ad organizzare infermerie, mense, ma anche attività ricreative, laboratori teatrali, attività scolastiche. Anche qui, come sempre, Giandante rifugge ogni compagnia e relazione stretta, eppure – novello Prometeo – dedica la sua vita gli altri. Organizza laboratori d’arte e corsi di storia; lavora da mattina a sera, esegue una gran quantità di piccoli disegni, adattandosi alla povertà dei mezzi a disposizione ed utilizzando i materiali e le tecniche concessi dalle circostanze : foglietti di recupero, colori ottenuti mescolando terre, ceneri e rifiuti. I temi dominanti sono ancora, nonostante tutto, animati dalla speranza : uomini in lotta per la costruzione di una società nuova, rappresentazioni di città del futuro e di schiere di umanissimi artefici. Scolpisce una colossale statua di Garibaldi – eroico emblema dell’Italia ideale e pura di cui ha nostalgia – con un improbabile impasto di fango, sabbia e paglia seccato al sole; i compagni di prigionia fanno a gara per farsi fotografare a fianco del colosso . Nei dipinti di Giandante intanto è comparso, con sempre maggior forza, il colore. Bianco e nero lasciano il passo a rossi incandescenti, gialli infuocati, verdi ancestrali : cromìe che irrompono con grande forza espressionistica. Una forza che potremmo dire libertaria. Ancora una volta, Giandante ha anticipato i tempi : è approdato a risultati formali d’avanguardia, comuni ai giovani riuniti intorno a “Corrente”, la rivista fondata nel 1938 da Ernesto Treccani. “Corrente” evolve rapidamente in movimento artistico, ispirato ai valori della sinistra internazionale, in alternativa al “Novecento” affine al regime. Imposterà il suo messaggio pittorico in funzione sempre più rivoluzionaria. Giandante – verrebbe da dire, ovviamente – non vi aderirà mai, in coerenza con la sua storia. Eppure nel dopoguerra alcuni protagonisti di Corrente, come lo stesso Treccani, Dino Formaggio, Aligi Sassu e Raffaele Degrada riconosceranno il loro debito ideale nei confronti di Giandante : un maestro per questi giovani che all’alba della guerra identificavano arte e vita come aveva sempre fatto Giandante. La lotta per la libertà diviene per questi artisti il catalizzatore del processo creativo : l’arte nasce anche dalla fame che non dà pace, dalla paura del prigioniero, dal freddo e dal caldo che a stagioni alterne scuotono il corpo senza tregua. Certo è difficile restare umani in un campo di concentramento, eppure -scriverà Giandante – “anche in una fogna si sogna “. Giandante, così, sparge un seme di speranza : anche nei momenti più bui, non perde mai la fede nella libertà. Dipinge, scolpisce, è in costante ricerca, “per sostituire nell’equazione della vita la X della libertà a quella della paura “. Non cessa un attimo di sentire sua la patria che sente usurpata, e da cui ha dovuto separarsi, ma che non smette di amare in modo viscerale, ormai struggente. Aveva scritto nel 1939, in una delle tante poesie vergate nel campo di concentramento di St. Cyprien, “Madre (Italia)” : “La madre Italia disse : / <>. Quasi tutte le opere realizzate da Giandante nei campi francesi sono andate perdute – le poche disperse riemergono ogni tanto dall’oblìo della storia a Mosca, o in Spagna, o nell’Europa dell’Est. Sono piccoli fogli dipinti, a volte sugli ordini di rimpatrio, che Giandante donava ai compagni di prigionia e che grazie alle piccole dimensioni potevano essere facilmente conservati in quaderni o libri : opere che, dove riemergono, segnalano il ritorno a casa di un combattente volontario per la libertà. Infatti da Vernet, in un modo o nell’altro, si esce. Arriva il momento in cui per il governo filonazista di Vichy quei prigionieri non son null’altro che un peso. Decidono di liberarsene. Giandante viene consegnato alle autorità italiane. Nel suo “curriculum” c’ è materiale sufficiente per cinque anni di confino : non serve neppure un processo, è sufficiente un provvedimento amministrativo della commissione provinciale che fa capo al Ministero dell’Interno. Nell’agosto del 1942, viene quindi assegnato alla colonia penale di Ustica. Alcune significative regole disciplinari del confino si posson leggere in un documento conservato da Giandante nel suo archivio personale : “tenere buona condotta e non dar luogo a sospetti; non intervenire in pubbliche riunioni o processioni, spettacoli o trattenimenti pubblici senza speciale permesso; non frequentare postriboli, osterie o altri esercizi pubblici; non giocare di azzardo nè a qualsiasi altro gioco; non discutere di politica e non fare propaganda politica in modo anche occulto; non arrecare molestia di qualsiasi genere e per alcun motivo agli abitanti dell’Isola, mostrandosi rispettoso verso tutti e specialmente verso le Autorità Civili, Militari ed Ecclesiastiche “. Non c’è traccia di disegni di Giandante ad Ustica. Intanto, nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo, con l’avallo di casa Savoia, solleva Mussolini dal comando delle forze armate : è il collasso del regime. Il nuovo governo Badoglio, anche se riluttante, rilascia tutti gli antifascisti, ma non gli anarchici (tra cui Giandante), che sono trasferiti nel campo di prigionia di Renicci-Anghiari : un campo di concentramento nei pressi di Arezzo allestito originariamente per prigionieri di guerra jugoslavi. Gli internati ammontano complessivamente a 6.000. Anche qui le condizioni igieniche sono indecenti; le riserve alimentari del campo abbondano, eppure le razioni stremano i detenuti : la fame viene utilizzata come strumento di controllo. La denutrizione espone alle malattie e “un prigioniero ammalato – dichiara il comandante del campo – “è un prigioniero tranquillo “. In 150 moriranno di fame. Gli internati restano alla mercè dei carcerieri fino a poco dopo l’8 settembre : a quel punto l’esercito italiano è già in frantumi, rassegnazione e sbandamenti dilagano, quando alcune autoblindo tedesche spuntano all’orizzonte. Le 500 guardie del campo gettano le armi e fuggono, i prigionieri possono scappare. Tale è la miseria intorno, che in poche ore la popolazione locale annienta il campo saccheggiandone ogni briciola : cibo, arredi, vestiti, persino porte, finestre e le assi delle baracche – tutto trafugato. Al volger della sera, di Renicci non resta che uno sgradevole ricordo . Intanto gli ex-alleati tedeschi occupano militarmente le città del Nord; tocca quindi agli antifascisti prendere l’iniziativa organizzando le prime bande partigiane. La famiglia reale al gran completo, governo al seguito, va a Brindisi – nelle retrovie; Giandante invece ritorna a Milano, ancora una volta in prima linea. Dei venti mesi successivi di Giandante non si sa quasi nulla, se non che vive in clandestinità e milita come ufficiale di collegamento della Brigata socialista Matteotti-Fogagnolo, distaccamento della divisione Pasubio, che combatte fianco a fianco con le Brigate anarchiche. La sua militanza nella Resistenza è attestata dal lasciapassare originale della Brigata Matteotti, anch’esso conservato dallo stesso Giandante tra le sue carte. La guerra fa il suo corso, la Resistenza fa la sua parte; così l’occupazione nazifascista termina nella primavera del 1945. Il tumulto della folla attorno ai cadaveri appesi a piazzale Loreto cala il sipario sull’ultimo atto della tragedia fascista. Ferruccio Parri, comandante partigiano, guida il primo governo dell’Italia liberata; poco in sintonia con gli Alleati, dura solo dal giugno al novembre del 1945. Gli succede De Gasperi, più allineato “normalizzatore”. Tutto, lentamente, torna “normale”. E come dall’oltretomba, ricompare Giandante – che quasi tutti ancora credevano morto nella guerra di Spagna. A qualcuno prende quasi un colpo quando, passeggiando per le strade distrutte di Milano, all’improvviso se lo ritrova di fronte . Anche Giandante però pare – pare – più “normale” : non ha più il suo cappellaccio alla Macario, è senza il suo pastrano nero da militare d’assalto, senza la divisa di velluto che portava in ogni stagione, senza il cinturone da artigliere, non calza più scarponi chiodati. Ha una giacchetta da due lire, una camicina a righe un po’ triste, una cravatta di pezza. E’ in borghese – proprio lui – con quel nonsochè di umile e banale che l’abito civile suggerisce. Giandante non pare più Giandante. Di magnetico, di demoniaco, non gli è rimasto che lo sguardo. Giandante pare saperlo; così, a differenza che in gioventù – quando ubriacava con le parole – ora preferisce tacere e fissare gli interlocutori con quegli occhi infuocati. Parla poco ma dipinge e scrive molto. E’ un testimone della barbarie e lo resterà per sempre – è “l’ Uomo che ha visto” : non a caso dà questo titolo ad un volume di poesie dato alle stampe nel 1946. Dal ’46 al ’48 edita quattro pamphlets di liriche, scolpite – secondo Dino Formaggio – in “una materia linguistica incandescente ” : emerge da 25 anni di lotta, isolamento, prigionia, per dedicare i suoi versi a “tutta la gioventù che ha tanto sofferto “. Da lui non esce una parola d’odio : solo umana, quasi ascetica, monacale compassione per la terribile bestialità degli uomini – di cui pure i carnefici sono vittime. Ha visto molto e ha molto da dire. Nel maggio successivo ha già pronta una mostra per la Galleria dell’Annunciata di Bruno Grossetti, luogo cruciale dell’Arte a Milano. Espone immagini di uomini e donne al lavoro, folle in festa, danze. Giandante pare voler curare coi colori le piaghe di un paese di reduci. Ma anche in quei colori c’è un sottofondo cupo, sordo e crudo, non consolatorio, sintetizzabile in un’annotazione di Raffaele Degrada : Giandante “fa brillare i colori come si fa brillare una mina “. Anche qui, come nota Leonardo Borghese – critico d’Arte del “Corriere della Sera” – l’arte di Giandante palesa un interesse morale e sociale. Borghese sottolinea che “Giandante ebbe sempre il merito di non considerare l’arte come attività autonoma “, dalla vita ovviamente. La mostra all’ Annunciata è un grande successo : il pubblico e la critica sono unanimi, la partecipazione ed i giudizi positivi di Raffaele De Grada, Giulia Veronesi, Alfonso Gatto tra gli altri, sono la prova del prestigio di cui Giandante ancora gode presso molti operatori del settore. Per un po’ quest’onda culla Giandante : per tutti gli anni ’50 e i primi anni ’60 si susseguono numerose le mostre nelle Gallerie milanesi. Giandante dipinge volti, fiori, e soprattutto montagne grondanti colore, masse emblematiche : sono i Pirenei che guardava dal campo di concentramento in Francia, il suo miraggio di libertà e assieme la cortina di roccia oltre la quale suoi compagni subiscon le vendette dei vincitori . Sono colossi di pietra, granitico rifugio dei partigiani e assieme trappola mortale. Sono archetipi morali che sfidano lo spazio e il tempo, tragicamente ambivalenti. Ormai nella pittura di Giandante tutto è simbolo. La sua tecnica prediletta, quasi l’unica che utilizza ormai, è l’encausto : colori sciolti nella cera bollente . Non a caso, l’encausto – etimologia greca : letteralmente “bruciare dentro”. Negli innumerevoli volti che Giandante dipinge – volti che non son mai ritratti ma figure simboliche, Uomini assoluti – molti vedono il Cristo. Certo non è quello l’intento figurativo esplicito di Giandante, eppure in qualche modo in ognuno di quei volti veramente c’è un Cristo – come in Rouault : un eroe umano, troppo umano, il cuore dell’Universo, il centro della Storia. Aveva ammonito Kurt Tucholsky – poeta, scrittore e giornalista tedesco – feroce critico della sua Germania ai tempi del Nazismo nascente, morto suicida nel 1935 : ” E quando tutto sarà passato, quando tutto questo si sarà esaurito : l’ebbrezza di incedere in massa e di agitare bandiere in gruppi… Allora ci sarà uno che farà una scoperta addirittura clamorosa : scoprirà l’individuo. Dirà : c’è un organismo chiamato uomo, ecco l’importante. E la questione è se questi è felice. E lo scopo è che sia libero. I gruppi sono secondari… lo Stato è qualcosa di secondario. L’ importante non è che viva lo Stato – l’importante è che viva l’uomo”. L’Uomo. Il centro della vita di Giandante. Giandante all’inizio mantiene i contatti con i galleristi ma il suo tarlo, inesorabile, lo rode da dentro. Il suo passato, il suo carattere granitico e duramente forgiato dalla Storia, non gli consentono diplomazie nè vie di mezzo. E’ assetato di assoluto, ma attorno a sè trova ben poco a cui abbeverarsi e scivola, inesorabilmente, ai margini della società. Nota efficacemente Roberto Farina : “Quasi nessuno sa del suo passato, non racconta della militanza antifascista, né della guerra, né della prigionia. Non segue mode, non firma manifesti, non ha partito. I dibattiti e le polemiche di gruppo tra artisti e mercanti, nei caffé, nei salotti e sui giornali, non lo interessano adesso più di quanto lo interessassero prima della guerra “. Così, mentre gli artisti stringon sodalizi tra di loro, e con sindaci e assessori, Giandante – diffidente, solitario, sempre venato d’un laico misticismo quasi ascetico – si isola progressivamente nella casa-studio di via Senato. Scrive di sè : “(…) La collettività voleva che collaborasse; egli si ritirò e si rinchiuse cercando quello che gli altri non potevano capire : il mondo della miniera sua interna che doveva poi così terribilmente e lentissimamente scoprire come in un parto agonico. (…) Cercarono dei borghesi venali di corromperlo ma nella sua solitaria solitudine si armò di un’arma così sottile ed audace (la dialettica del paradosso) che, con la serenità sua tanto sconcertante, un nuovo invito sarebbe stato offensivo. E’ da poco, dopo molti anni, che il Viandante è uscito dalla foresta e si avvicina all’alito umano, ma, come un barbaro, al primo rumore punta i due carboni accesi, gli occhi senza ciglia, come per intravvedere nel buio la luce, e diffida (…)”. Nessuno – neanche i suoi più vicini e sinceri estimatori – riesce ad arginarne la caparbia auto-reclusione. Forse nessuno – nel “sistema” dell’Arte – davvero lo vuole. “Giandante deve rimanere un mistero” dirà di lui Gabriele Mazzotta, lo storico editore milanese. Scrive di lui Leonida Repaci nel 1958 : ” (…) Su questo artista che, se fosse nato a Parigi, avrebbe oggi una fama mondiale, tutta una letteratura su di lui, la nostra critica qualificata ha sempre sdegnato d’ impegnarsi a fondo, per assegnargli il posto rilevante che gli spetta nell’arte contemporanea. (…) A Venezia Giandante non è mai stato invitato… (…) Morirà un giorno, per davvero, Giandante lascerà questa amara terra alla quale egli ha dato tutto, dalla quale tanto poco ha ricevuto, e quel giorno (…) i critici (…) porteranno sulle spalle la pesante responsabilità di aver incontrato Giandante sul loro cammino, senza capire il profondo significato di un’arte che ha bruciato tutta la polemica estetica del suo tempo, per dar vita, in forme originalissime, a una nuova mitologia dell’uomo per una società finalmente affrancata dalla paura” . Frequenta, del tutto saltuariamente, qualche compagno di strada : tra questi, Giovanni Pesce ed Onorina Brambilla – medaglie d’oro della Resistenza; Leonardo Repaci; Gino Traversi; ben pochi altri. Lascia questo mondo nella sua Milano, in solitudine, nel 1984. Il giovane e colto figlio di ricchi borghesi che ha abbandonato tutto, persino il nome, ribattezzandosi “X” – la firma degli analfabeti, il “signor nessuno” – per riconquistarsi tutto da capo ed essere davvero libero, chiude finalmente il suo cerchio. Riconoscendo la profondità e sincerità del suo messaggio artistico e poetico, nel 1988 la provincia di Milano gli conferisce la medaglia d’oro per meriti artistici e civili. Qualche mese dopo, la Fondazione Corrente costruisce attorno a lui una Mostra fondamentale : “Le avanguardie dimenticate”. Milano risponde quasi in tacito, concorde omaggio : il pubblico affluisce a frotte, rendendo onore a quella X – “una cicatrice unica ma uguale a tutte le ferite del mondo “. Una ferita tormentata – come per milioni di Europei – dalla politica, dalla Storia del ‘900. Al Cimitero Maggiore di Milano, quella ferita è infine chiusa : sulla lapide è scritto “Dante Pescò 8/8/1899 – 19/11/1984”.
Luca Sforzini