CASEI GEROLA – Pietro Bisio “il pittore contadino”
di Luca Sforzini – da Pavia In Tasca, novembre 2008
“Ho messo in mostra Candido, e tutti lo vogliono : me l’avran già chiesto in dieci”. Non provo io stesso a trattarne l’acquisto perché Pietro Bisio m’ha anticipato, spiegandomi che tanto dovrei mettermi in fila. Candido è un contadino in abiti della festa, dipinto nel 1972, placidamente seduto di fronte a un paesaggio d’Oltrepo dal cielo rosso; monumentale come una roccia, ma ingentilito da un foulard che mai sarebbe comparso nei duri, crudi e cupi dipinti anni ’50 e ’60.
La piccola esposizione, nella chiesa di San Guglielmo a Casei Gerola, ospita una decina di tele; gradevoli, vivaci, fantasiose, un paio han già trovato un nuovo proprietario. Ma tutti vogliono Candido, che non è in vendita. Candido parla, dal suo ostinato silenzio; parla il cielo rosso, e la terra rossa di bagliori.
C’è molto della storia di Bisio, in quest’aneddoto.
Classe 1932, allievo di Aldo Carpi e Domenico Cantatore all’Accademia di Brera, ha dato del tu ai grandi del ‘900 italiano : Fontana, Burri, Treccani, Banchieri, Guerreschi, Ceretti, Romagnoni, Vaglieri, e molti altri con cui ha condiviso sensibilità, studi, giornate, avventure artistiche e di vita.
Apprezzato da critici di fama, lodato da Raffaele De Grada, Marco Valsecchi, Eva Tea, Elda Fezzi, Mario Ghilardi, Mario Monteverdi, Luciano Caramel; c’è chi in lui ha rivisto Permeke.
Bisio dichiara d’aver subito l’influenza culturale di Mathieu, Hartung e Kline, il fascino di Beuys e Duchamp; in certe sue opere c’è l’eco di Dubuffet e Pollock, in altre di Baj.
Pietro Bisio, poeta contadino, testimone ancestrale della fame e della sete, poi della ciminiera e del fungo atomico che sorgono sul limitare del campo, drammatico cantore della natura maltrattata, del cemento e dei veleni, capomastro del “muro dei poveri”, camminando nella “discarica in cui viviamo” ha raccattato un po’ di tutto : ciabatte rotte da metter sulla tela e numi tutelari; un cesso dipinto piazzato nel cortile di casa a mo’ di scultura e il suo grande modello di riferimento.
Si è fatto lui stesso discarica, ed ha smaltito tutto. Lo spiega, per chi ha orecchie lo teorizza : “L’orinatoio di Duchamp è una fontana spenta, la mia è una fontana viva, ci dò da bere ai piccioni”. E infatti in cima al cesso c’è una ciotola piena d’acqua per gli uccelli : uno sberleffo anche a Duchamp.
Bisio ha sempre saputo cos aveva da dire : ha maturato la sua poetica subito, negli anni ’50 e ’60, e da allora le è rimasto fedele. Vive cercando, un cammino tormentato, inquieto, infinito, sempre nuovo; i suoi assemblaggi di rifiuti, i dripping, gl’informali, le opere concettuali, gli omaggi, il brutale affastellamento di materiali e stili paion frutto di mani e menti diverse. Eppure da 60 anni il filo rosso è sempre quello : “Io mi sento un pittore contadino”. Dice sempre le stesse cose, in lingue diverse.
Guardi “Sterpaglie nel vigneto d’inverno a Cadelazzi”, l’ultima grande tela finita qualche giorno fa : sono rami di sambuco tagliati, raccattati in campagna, affogati nella vernice bianca e sbattuti su una tela nera in modo apparentemente casuale. C’è tutto un mondo che ben conosciamo, su quella tela, come c’è tutto un mondo sulla tela di Candido. Cambia solo la lingua : Candido ci parla in dialetto, e noi lo capiamo meglio; forse, semplicemente, lo capiamo prima.
Pietro Bisio è un oltrepadano di pianura : non c’è manco una collinetta a Gerola. Non c’è una collina nei suoi dipinti, nemmeno negli scorci di paesaggio : solo lunghi campi pianeggianti, infiniti. In quella sua lingua di terra stretta tra le colline e il Po, penso abbia sempre volto le spalle all’Appennino; ha sempre guardato il fiume, l’acqua che scorre, non è mai la stessa ma pare sempre uguale.